Archivio mensile:gennaio 2015

Il capitale umano ( Un film su un’Italia immaginaria, ma nemmeno troppo)

di Matteo Rezza

Quando ci han parlato tutti de “Il capitale umano“, il film di Paolo Virzì che all’ultimo è stato escluso dalla corsa agli Oscar, abbiamo avuto la classica reazione di rigetto un po’ snobistica tipica di chi cerca evitare i film pompati da media, pubblico e critica ( e poi puntualmente li guarda). Questo non perchè ci riteniamo dei grandi critici di cinema (di tecnica cinematografica non ne sappiamo una mazza), piuttosto perchè non vogliamo correre il rischio di crearci un’aspettativa che poi venga puntualmente disattesa. Ecco, grazie alla messa in onda da parte di Sky, nel caso de “Il capitale umano” ammettiamo volentieri l’errore: perchè l’opera di Virzì è interessante, quasi intrigante.

Cominciamo col dire, per i pochi che ancora non lo sapessero, che il soggetto è tratto dal libro omonimo di uno scrittore americano, Stephen Amidon, pubblicato nel 2004. Vi avvertiamo immediatamente che non l’abbiamo ancora letto (ma lo faremo), dal poco che sappiamo è un thriller ambientato nel Connecticut, la struttura del romanzo è simile a quella del film di Virzì (grazie Ibs), seppur il regista toscano rivisiti il tutto in una chiave volutamente grottesca, pur mantenendo sempre il tema thrilling dell’opera di Amidon. Il film inizia con lo speronamento di un ciclista da parte di un Suv lungo una statale brianzola nei pressi di Ornate (paese immaginario); incidente come ne capitano a centinaia, con il conducente che non si ferma a prestare soccorso al malcapitato ciclista. Esaurito il preludio, il film si concentra sulle vite di due famiglie, gli Ossola e i Bernaschi, che si ritroveranno legate dagli sviluppi di questo incidente apparentemente slegato dalle loro vicende. Virzì organizza la struttura del film offrendoci quattro punti di vista della storia, ovvero quello di Dino Ossola (immobiliarista fin troppo rampante con aspirazione di ascesa sociale e economica), Carla Bernaschi (ex attrice per passione sposata al ricco finanziere Giovanni Bernaschi), Serena Ossola (la figlia di Dino, ex fidanzata di Massimiliano, insopportabile figlio dei Bernaschi), e infine il punto di vista dell’osservatore esterno, che seguirà la vicenda fino all’amara conclusione. Dino Ossola (un irriconoscibile Fabrizio Bentivoglio) è un immobiliarista da strapazzo, che grazie alla relazione della figlia Serena con il rampollo della famiglia Bernaschi entra in contatto con il capofamiglia Giovanni (Fabrizio Gifuni, davvero centrato nella parte del ricco brianzolo che ragiona sempre e solo in termini economici). Dino vuole uscire dalla propria condizione di mediocrità, e convince Giovanni a farlo entrare, mediante il versamento di 700.000€, in un affare speculativo che sta conducendo Bernaschi. Solo che quei soldi Ossola non li ha, per cui si ritrova a dover chiedere un prestito bancario dando come garanzia la casa di proprietà. Purtroppo per lui, l’arrampicata sociale subirà una brusca frenata, che lo porterà a dover mettere da parte una rispettabilità che in realtà è solo di facciata in favore di una grettezza tipica degli arrampicatori sociali. Carla Bernaschi (un’ottima Valeria Bruni Tedeschi, pure lei centratissima nella parte dell’attricetta disillusa imprigionata in un matrimonio che puzza molto di convenienza), è la moglie di Giovanni, un’annoiata alto borghese che cerca di dare un senso alla propria vita tentando di riportare ai fasti di una volta il teatro cittadino, in condizioni di abbandono totale. Se inizialmente la sua intenzione verrà appoggiata finanziariamente dal marito Giovanni, in seguito dovrà fare i conti con i rovesci finanziari di quest’ultimo, che le impedirà di proseguire nel progetto in modo da poter vendere il teatro abbandonato per realizzare degli appartamenti; sgomenta, disillusa, Carla cerca un’improbabile vendetta tessendo una tresca con Donato Russomanno (Luigi Lo Cascio, che se non fa ruoli che trasudino impegno civile e cultura da sinistra chic non è contento), il direttore artistico del teatro. Serena Ossola (una notevole Matilde Gioli) è la figlia di Dino, e quanto di più distante ci possa essere dal padre. Sognatrice ma allo stesso tempo pratica, ha avuto una relazione con Massimiliano Bernaschi (Guglielmo Pinelli), l’emblema del tipico figlio di papà brianzolo a cui tutto è dovuto. I due rimangono amici (più per volere di Massimiliano che di Serena, a dire il vero), ma la ragazza durante una visita alla matrigna psicologa (un’ottima Valeria Golino, che a sto giro è pure riuscita a recitare coi decibel giusti) conosce un mezzo sbandato con velleità di artista, Lorenzo. Finalmente innamorata, non può immaginare come il destino cinico e baro stritolerà i due ragazzi nella propria implacabile tenaglia.

L’ultimo punto di vista (il capitale umano, per l’appunto) ci mostra come tutti gli eventi apparentemente slegati che si sono prodotti nelle vite di questi personaggi arriveranno a legarsi, incidendo parecchio sulle esistenze di ognuno, e sulle ambizioni (ma soprattutto frustrazioni) tradite da principalmente da loro stessi e dalla propria inadeguatezza. Nessuno è totalmente innocente, tutti abbiamo dei segreti che rischiano di affondarci nell’angoscia spingendoci a svelare la parte più sgradevole di noi, stracciando quella rispettabilità di facciata che tanto si anela ma che puntualmente viene disattesa nella ricerca di una felicità impossibile, ma solo per colpa nostra. Riguardo a questo, Virzì è davvero bravo a raffigurare personaggi al limite del grottesco (alcuni critici han parlato di macchiette, ma non siamo d’accordo), caricature paradossali ma non troppo di figure sociali ben radicate nella società italica. Chi non ha mai conosciuto il fighetto brianzolo figlio di papà, tutto scuole e università private, con la sua insopportabile cadenza, il suo spendere e spandere per farsi notare e sentirsi ammirato, solitamente studente di economia senza capirne niente, il cui massimo approdo sarà entrare nell’azienda di famiglia? O di quanti finanzieri rampanti abbiamo letto sui giornali in questi anni, personaggi che si ritengono geni della finanza, deus ex machina di speculazioni mai troppo chiare, alla ricerca continua di plauso sociale tramite la gestione di fondazioni di supposta beneficenza, in realtà un modo come un altro per pagare meno tasse? Per non parlare dei presunti professionisti che elevano la propria cialtroneria a strumento di sopravvivenza, nella loro arrampicata sociale che non guarda in faccia niente e nessuno? Non siamo d’accordo nell’accusa a Virzì di aver reso i suoi personaggi delle macchiette, anzi provocatoriamente riteniamo che il suo sia un grottesco grondante di puro realismo; purtroppo per noi siamo circondati continuamente da personaggi che sembrano essere usciti dalla commedia dell’arte all’italiana e che si prendono pure molto sul serio. Sarà…

Sul fronte degli attori, come già detto, abbiamo trovato assolutamente credibile Gifuni nella sua resa del finanziere spregiudicato, simbolo di un’economia che non produce nulla di reale ma che si basa su algoritmi di previsione e speculazioni sulle disgrazie altrui; ottima Bruni Tedeschi che riesce a trasmettere l’inadeguatezza di chi non si sente al proprio posto ma non riesce (o non vuole) rinunciare alla propria vita di assuefatta agiatezza, e notevole anche l’interpretazione di Bentivoglio col suo immobiliarista cialtrone connotato dalla parlata alla Guidone Nicheli- Zampetti (“Milano via della Spiga- Hotel Cristallo di Cortina 2 ore 54 minuti 27 secondi, Alboreto is nothing” assoluta storia del cinema). Menzione d’onore per la bellissima e brava Matilde Gioli, la quale riesce nell’impresa di non rendere il suo personaggio di Serena la solita adolescente cagacazzo da film Disney ma piuttosto una ragazza che cerca di non farsi sopraffare dalle situazioni che la vita le pone davanti, nel bene e nel male. La regia di Virzì riesce a mantenere il ritmo della narrazione sempre alto e non ci si annoia, fa rendere al meglio i propri attori e ci regala lo spaccato di un paese che tanto vuole, ma alla fine non può mai. Un ottimo film davvero, che fonde il thriller con la commedia grottesca senza però mai cadere nel banale e nel già visto. Consigliato!

P.S. Abbiamo adorato la scena della discussione tra i membri del consiglio d’amministrazione del teatro, in particolare la figura della critica cagacazzo ma senza proposte concrete e il personaggio del consigliere protoleghistaterra-terra, al contrario di voi“:  il quale, tra un congiuntivo sbagliato e un’ Iphone sempre acceso, accusa gli altri partecipanti di snobismo non funzionale ai reali gusti della gggente, proponendo per la serata inaugurale invece del solito Pirandello o peggio del tremendo teatro sperimentale, un coro di voci padane della valle. “Valido, davvero valido”. Non abbiamo dubbi.

L’uomo che spiegava i miracoli (I delitti “impossibili” di John Dickson Carr- parte 2)

di Matteo Rezza

Il 1933 è un anno fondamentale per la letteratura gialla: dopo aver concluso il ciclo “Bencoliniamo” (che avrà un’appendice nel 1938 con la pubblicazione di ” The four false weapons“, “Quattro armi false”, l’ultima avventura di Bencolin), Carr fa esordire sulla scena il primo dei suoi due grandi eroi, il dottor Gideon Fell. Lo conosciamo nel romanzo “The hag’s nook” (“Il cantuccio della strega”), e subito c’è da rimanerne un tantino spiazzati. Il dottor Fell è innanzitutto grasso, davvero grasso. A una prima lettura questo potrebbe non risultare un elemento focale, in realtà segnala un elemento di rottura da parte di Carr rispetto alla tradizionale figura dell’investigatore privato: bello, aitante, sportivo, elegante, dotato di un’intelligenza non comune; basti pensare a Sherlock Holmes e alle sue disfide con Moriarty, alla sua arroganza intellettuale nei confronti dell’uomo medio che non riesce a seguire i suoi ragionamenti, alla passione per il violino, o l’uso di cocaina; o ancora più caratterizzato, Philo Vance (il geniale investigatore frutto della penna di S.S. Van Dine), al suo elegantissimo attico newyorchese, alle sue indagini sempre ambientate nell’alta società della grande mela, al gusto raffinato nel vestire e il monocolo sempre a portata di mano…Questi solo per citare i due archetipi dell’investigatore colto e raffinato, oltrechè bello e prestante.

Bene, il dottor Fell non è niente di tutto questo: come già detto, è grasso, ama l’alcool, è quasi sciatto nel vestire (con se troveremo sempre un grande cappello a larghe falde e degli occhiali legati a un cordino, e solitamente nei suoi spostamenti è accompagnato da una mantella nera), non riesce a produrre spostamenti che non richiedano una pachidermica lentezza, i capelli bianchi sempre in disordine, come del resto i folti baffoni bianchi. Babbo Natale insomma, o una rivisitazione laica e moderna di Padre Brown (l’investigatore firmato G.K. Chesterton, la cui opera influenzerà oltremodo la produzione Carriana). Ma attenti a sottovalutare il dottor Fell: questo pachidermico bambinone (ha uno spiccato senso dell’ironia e della goliardia) davanti a un delitto, solitamente “Impossibile”, diventa implacabile. Quando sembra stia sonnecchiando dopo una pinta di Ale’s (o forse più d’una…!), il dottor Fell in realtà macina teorie e analisi dei dati, come un matematico alle prese con un’equazione. E il risultato dell’equazione dell dottor Fell è sempre il nome dell’assassino, ma soprattutto la spiegazione perfettamente razionale del suo “modus operandi” e di come abbia potuto commettere un delitto che nessuno  avrebbe potuto commettere. Meraviglia delle meraviglie…

In “Hag’s nook” abbiamo già tutti gli elementi che contraddistingueranno i suoi casi, miscelati con diabolica perizia da Carr. L’ambientazione è un paesino del Kent, Chatterham, dove la vita scorre sempre tranquilla, i tramonti colorano sempre le verdi colline tipiche della campagna inglese, gli abitanti conducono una vita tranquilla e riservata. A rompere l’incantesimo, ci pensa la maledizione che grava sulla famiglia dei Starbeth, secondo la quale i maschi della famiglia, per tradizione, al compimento del 25esimo anno d’età debbano trascorrere una notte nella “Sala del governatore“, posta in una prigione diroccata affacciata su una sinistra palude, il cantuccio della strega per l’appunto. La maledizione vuole che al termine della nottata, lo Starbeth di turno venga ritrovato morto, con il collo spezzato, nel cantuccio stesso. Sono dicerie, pensano tutti, anche se il giovane Martin, che sta per compiere i suoi 25 anni, non ne sembra tanto certo. Trascorre così la nottata del suo compleanno all’interno della sala del governatore, con il supporto del dottor Fell e altri testimoni, che non perdono di vista un momento la stanza e la prigione. Del tutto inutile, poichè il corpo di Martin verrà ritrovato nel cantuccio con il collo spezzato…E’ impossibile, poichè tre testimoni oculari possono confermare come nessuno possa essersi avvicinato alla prigione, eppure è così. Sarà compito del dottor Fell, coadiuvato dal giovane americano Ted Rampole (la proiezione del lettore confuso e sbigottito) dare una spiegazione logica a questo e ad altri fatti infernali che si svolgeranno nel corso della storia, la quale si concluderà con un colpo di scena tipico dei grandi gialli ad enigma. “Hag’s nook” è, a nostro parere, un grande romanzo: più maturo stilisticamente dei precedenti romanzi con Bencolin, ha un plot originale e una caratterizzazione dei personaggi più mirata, risultando credibili e non tagliati con l’accetta come accadeva in alcune avventure di Bencolin. Un gioiellino della corona di Carr, che sarà completata negli anni successivi  da altre gemme ancora più preziose.

Gli anni ’30 sono creativamente assai prolifici per Carr, che sfornerà romanzi a una velocità considerevole, e sicuramente i suoi migliori. Nella prima metà dei ’30, ritroveremo il dottor Fell alle prese con un criminale assurdo, il Cappellaio Matto, che getta nel terrore la Torre di Londra (“The mad hat mystery“, “Il Cappellaio matto”, 1933), o a risolvere il mistero di una serie di avvenimenti senza senso svoltisi su un piroscafo nell’atlantico ( “The blind barber“, “Delitto a bordo”, 1934), o ancora a indagare su un delitto caratterizzato dalla presenza di una carta dei tarocchi sul corpo della vittima (“The eight of swords“, “Otto di spade”, 1934). Romanzi che sembrano essere il preludio a quello che è considerato da molti critici il capolavoro di Carr, il libro che forse più di tutti (a nostro parere a pari merito con “L’automa”) raccoglie la summa del mondo creato dallo scrittore americano: parliamo, ovviamente, di “The three coffins” ( o “The hollow man“, “Le tre bare”, 1935).

Ecco a questo punto c’è bisogno di porre una premessa: stilisticamente parlando, “Le tre bare” non è sicuramente il miglior romanzo di Carr. I personaggi (non tutti,c’è da dire) vengono descritti in maniera sintetica, quasi stilizzata, con una marcata assenza di approfondimento psicologico. I dialoghi in alcune parti risultano affrettati o paradossali. Tutto vero, tutto giusto. Ma per una volta, la grandezza del libro non sta nella forma, ma nel contenuto: “Le tre bare” ha quello che, a nostro parere, è il plot più brillante della storia del giallo, sicuramente il più intrigante. Un uomo, il rispettato dottor Grimaud, viene minacciato da un misterioso individuo davanti a dei testimoni; costui afferma di essere tornato dal mondo dei morti per prendersi la vita di Grimaud, dopodichè potrà fare ritorno nella sua bara. L’illustre conferenziere non sembra prendere troppo sul serio la minaccia, tuttavia la sera prestabilita il suo studio è piantonato dal segretario personale e dalla governante. Il misterioso individuo si presenta a casa Grimaud, viene accolto dallo stesso Professore nel suo studio, che viene chiuso dall’interno. Fuori Londra è coperta di neve, causa un’abbondante nevicata che è da poco cessata. I testimoni improvvisamente sentono degli spari, e la provvidenziale venuta di Fell e del fido Rampole li porta a scoprire, dopo aver sfondato la porta ermeticamente chiusa dall’interno, il professor Grimaud a terra, morente, con una pallottola che gli ha perforato il polmone. Dell’assalitore, nessuna traccia, volatilizzato più leggero dell’aria. La finestra è si aperta, tuttavia la neve sul davanzale non presenta. segni di passaggio, come del resto testimonia la coltre immacolata sottostante la finestra stessa. Un vero e proprio miracolo, o incubo infernale che dir si voglia. A completare la scena paradossale, un quadro appena acquistato da Grimaud che a parer suo “Sarebbe stata la sua precauzione contro l’assalitore”, totalmente squarciato da un pugnale. Fell brancola nel buio, e a peggiorare la situazione arriva un secondo delitto, altrettanto impossibile: la vittima è stata uccisa con un colpo di pistola all’interno di una strada chiusa, per di più alla presenza di due testimoni oculari, che ovviamente giurano e spergiurano che non fosse possibile che qualcuno potesse aver sparato senza essere visto; per di più, anche in questo caso, la neve è immacolata, neanche la più piccola impronta intorno al corpo, eppure il colpo è stato sparato da distanza ravvicinata…In un turbinio di false piste, colpi di scena e indizi senza senso, il dottor Fell riuscirà a venire a capo di questo clamoroso mistero, svelando l’identità e il modus operandi dell’uomo “uscito dalla sua bara”.

Se non fosse abbastanza, il romanzo al suo interno presenta un’altra vera e propria rarità, ovvero le celebre conferenza del dottor Fell su tutti i possibili metodi per commettere un assassinio all’interno di una stanza chiusa dall’interno. E’ un’analisi magnifica, completa, nella quale il dottor Fell ci accompagna per mano affrontando tutte le varie possibilità riguardanti un delitto impossibile. Qualcosa di simile farà anche Clayton Rawson (grande amico di Carr) nel suo “Death from a top hat” (“Morte dal cappello a cilindro”), e Derek Smith, autore sconosciuto che tuttavia ha fatto in tempo a regalarci quella chicca assoluta che è “Whistle up the devil” (“Un fischio al diavolo”). Tuttavia la conferenza del dottor Fell rimarrà ineguagliata, per casistica offerta e accuratezza dell’analisi.

Come già detto, Carr sforna romanzi a getto continuo, e la caratteristica comune di quelli scritti negli ‘anni 30 (e in parte negli anni ’40) è l’ingegnosità; i plot del Carr anni ’30 non sono mai banali, spesso fa capolino un tocco di soprannaturale, in alcuni romanzi riesce a miscelare elementi che più diversi non potrebbero, come nel caso di “The crooked Hinge” (“L’automa”, 1938): in questo caso l’autore sforna una vicenda misteriosa nella quale fanno capolino l’affondamento del Titanic, l’automa di Maelzel, il culto dell’esoterismo e un’eredità contesa da due uomini che asseriscono di essere la stessa persona. Non ci vorrà molto che un delitto impossibile avrà luogo, e nel drammatico svolgersi della vicenda (sicuramente  una delle più cupe ideate da Carr) il dottor Fell si troverà ad dover affrontare il segreto…dell’Automa. Il libro è, a nostro parere, un vero gioiello, offre una panoramica di personaggi all’altezza delle aspettative, un approfondimento psicologico che raramente o mai Carr aveva inserito nelle sue opere, e ovviamente, il mistero del delitto impossibile, il quale rientra nella nostra personale Top three (insieme al sopracitato “Le tre bare” e al bellissimo e angosciante “He who whispers” (“Il terrore che mormora”, 1946).

E’ assai complicato, nella sterminata produzione di questo autore, trovare dei romanzi che si ergano rispetto ad altri. A titolo puramente personale, citeremo, oltre a quelli di cui abbiamo già scritto: “The black spectacles” (“Occhiali neri”, 1939), “The case of the constant suicedes” (” Gideon Fell e il caso dei suicidi”, 1941), “Till death do tu us apart” (“Un colpo di fucile”, 1944), “The man who could not shudder” (“Fantasma party”, 1940, a cui siamo particolarmente affezionati in quanto fu il romanzo che ci fece scoprire il mondo di Carr, in un pigro pomeriggio di maggio del 2002).

Gli ultimi romanzi che vedono protagonista il dottor Fell risentono inevitabilmente della stanchezza fisica e mentale di Carr e, conseguentemente, non possono essere considerati all’altezza dei grandi titoli degli anni ’30 e ’40. Una stanchezza che traspare dalla costruzione stessa delle storie, che risultano molto più lente, con plot non esattamente brillanti, e lo stesso Dottor Fell quasi tediato dallo scorrere del tempo che s’è portato via gli anni del genio criminale e delle situazioni più complesse. Non è più tempo di miracoli, ma di onesti delitti che non richiedono uno sforzo eccessivo per il supercervello (seppure affaticato dagli anni che si sono accumulati) di Gideon Fell. Per la cronaca, l’ultimo titolo che vede il dottor Fell protagonista è “Dark of the moon” (“Tutto bene dottor Fell”, 1968).

“Il Dottor Fell è il primo dei due grandi investigatori partoriti dalla mente sagace di Carr. L’altro, beh, è il tipo che se commettete un delitto non vorreste mai avere alle calcagna, rischiereste di impazzire già solo per le smorfie di assoluta malignità che si riserverebbe di offrirvi: stiamo parlando del “Vecchio”, meglio conosciuto come Sir Henry Merrivale.”

⌊continua…⌉